Le ossa di Plinio il vecchio erano provate da una gioventù passata in guerra tra i popoli germanici, la sua pelle screziata dalle cicatrici e dai segni della vita militare. Provava sollievo quando passava con fare pensieroso e meditabondo tra i campi coltivati nelle campagne dell’ager romano. Plinio si soffermò nei pressi di un albero attorno al quale era stata avvinghiata una liana colma di grosse bacche dolcissime. Una vite coltivata alla maniera etrusca. Il sole era alto in quel pomeriggio autunnale, Plinio staccò qualche chicco e lo guardò controluce, li mangiò e si annotò forma e caratteristiche di ogni bacca. In mezzo ai campi vi erano uomini che raccoglievano i grappoli in grandi contenitori. Dal fondo dei filari arrivavano i profumi della frutta e del mosto cotto che presto avrebbero vissuto assieme. Quest’anno Plinio compie 2000 anni, ma la tradizione di cuocere il succo d’uva per ridurlo a sciroppo è ben più antica.

All’epoca di Plinio le campagne erano coltivate ordinatamente a ridosso dei grandi centri urbani. Nonostante il durissimo lavoro nei campi e nelle legioni, questi uomini seguivano una dieta prevalentemente vegetale, persino i patrizi più ricchi e gli stessi imperatori. Mangiare poco e in modo controllato era per loro un’importante tradizione culturale, ma erano anche in grado di godere di una cucina ricca e complessa dove i dolci erano per o più costituiti dalla frutta, una delizia simbolo di prestigio

I contadini dell’ager coltivavano la vite secondo tecniche apprese dagli etruschi e dai greci. Oltre al vino, che come si può immaginare richiedeva lavorazioni complesse per l’epoca e vari interventi di correzione, l’uva era anche usata come dolcificante, affianco al miele, una tradizione che si tramanda fino a oggi, anche se non sempre in modo evidente (ne parlerò più avanti). Uno degli usi più popolari del mosto d’uva, per prolungarne la conservazione, era difatti quello di cuocerlo.

Il mosto cotto è tutt’oggi la base, ad esempio dell’Aceto Balsamico Tradizionale di Modena (saba), in alcuni casolari remoti del modenese e del reggiano qualche appassionato ancora cuoce il mosto in grandi calderoni ereditati dai nonni. Anche allora, 2000 anni fa, il mosto raccolto da queste viti attorcigliate attorno agli alberi (sulle viti maritate arriverà a breve un articolo) veniva bollito facendo spandere nell’aria autunnale il profumo trasportato dalle brezze. Questo mosto veniva poi usato tra le altre cose per conservare la frutta. In questo periodo il mosto cotto coesisteva con la senape quest’ultima apprezzato ingrediente delle salsicce di farro e di alcune verdure, mentre lo sciroppo ricavato dalla riduzione del succo d’uva aveva già scopi molteplici come ad esempio conservante per la frutta.

All’ombra del vessillo del drago azzurro dei Visconti oltre un millennio più tardi in epoca medioevale, il mosto cotto ricompare ancora usato come condimento e come conservante, questa volta arricchito dagli speziali con grani di senape macinata e bollita, un ingrediente anch’esso di natali antichi che lo rendeva un appetitoso condimento piccante da usare sulle carni (no, non ancora in abbinamento ai formaggi, “E’ ideale per carni di maiale e tinche marinate” cita il Liber de Coquina, che suggerisce anche di arricchire il mosto con chiodi di garofano, zenzero, cannella). Era un mosto piccante insomma, “mustum ardens“, presente allora nel Nord Italia nelle cucine dei Gonzaga di Mantova e poi diffuso in tutto il mondo conosciuto. Non dimentichiamo la potenza commerciale di queste due antichissime famiglie lombarde.

Arriva in questo periodo tardo medievale la mostarda come la conosciamo oggi. Il termine riemergerà nella lingua francese e inglese attribuito però al solo elemento che arricchisce il mosto, “mustard“. Lassù questo termine sarebbe poi diventato per sempre identificativo della senape, lavorata per altro come la si lavorava in quel periodo ovvero bollita (in aceto) per giorni per rimuoverne le tonalità amare. Interessante una nota risalente alla Venezia del ‘300, dove il grasso che colava dagli arrosti veniva aggiunto a questa salsa.

De musto et mustarda: sic para mustum pro mustarda conficienda: accipe mustum nouum, fac eum bullire quod quarta pars solum remaneat uela. Et caue a fumo et spumetur bene. Deinde, semen senapi cum predicto musto distemperando tere fortissime. Postea, pone in barillo, et poterit conseruari per 4 menses. Et ualet pro carnibus porcinis uel tincis salsatis. Mustum poteris seruare pro aliis ferculis.

Liber de Coquina, XIV sec.

Nel ‘400 Maestro Martino accenna a una mostarda bianca fatta con pasta di mandorle, senape, agresto (succo di uva acerba) o aceto e mollica e una mostarda rossa che contevev uva appassita. Interessante l’accenno ad una terza mostarda asciutta, da cavalcata, da tener nelle bisacce durante i viaggi per poterla poi rinvenire quando necessario.

Passa qualche secolo e Cristoforo Colombo mette piede nelle future Americhe. Il Medioevo giunge accademicamente al termine qui e appaiono menzioni sparse sulla mostarda, ma è difficile ancora capire esattamente cosa si intenda con questo termine, oltre al nome, non vi sono accenni alla lavorazione.

Persutti accedant primo, bagnentur aceto,
Apponatur apri lumbus, cui salsa maridet,
Tripparumque buseccarumque adsit mihi conca,
Rognones vituli lessi sapor albus odoret,
Insurgant speto quaiae, mostarda sequatur!
Sic vivenda vita haec: veteres migrate fasoli!

Teofilo Folengo, XVI sec.

L’assenza vostra ci corrompe ogni piacere, et non sinit esse integrimi; però tornate ed arete mostarda, e ogni bene che con voi ne portaste.

Francesco Berni, XVI sec.

Arriviamo finalmente a Carpi in periodo rinascimentale dove riemerge il mosto d’uva cotto e la senape finalmente unite in matrimonio (la celeberrima mostarda fina sulla quale voglio assolutamente scrivere un articolo in futuro, ma le notizie sono sparse e difficili da reperire). La senape comincia a slegarsi dalla saba e apparirà ancora con differenze più o meno sfumate con il termine di savòr (da saba, appunto, il mosto cotto) a macchia di leopardo nel bolognese e in tutta Italia a sud della Lombardia, si pensi alla mostarda siciliana. Rimanendo in Emilia-Romagna a fine ‘800 Artusi la menziona come prodotto d’eccellenza di Savignano su Rubicone per esempio, ma la popolarità di questo condimento rimarrà collegata alla Lombardia e nei territori di influenza viscontea e gonzaghesca come frutta candita immersa in uno sciroppo dolce e senapato. Diventa a tutti gli effetti una “conserva”.

Vale la pena a questo punto fare un veloce appunto sulla città di Modena e le sue mele campanine. Il caratteristico Campanino diventa l’elemento più caratteristico della mostarda mantovana. Non stupiamoci, Modena ha avuto un breve periodo di dominazione mantovana e comunque i rapporti tra Este (pensiamo ad Isabella d’Este) e Gonzaga sono sempre stati strettissimi. A livello enogastronomico Modena è più vicina a Mantova di quanto non lo sia a Rimini o Cesena.

Siamo come abbiamo già detto arrivati al 1800, il secolo di Pellegrino Artusi. In un testo di inizio secolo si fa menzione alla Mostarda di Cento… Non ho trovato nulla a riguardo ma se qualcuno ha qualche informazione mi scriva cortesemente un’e-mail o condivida le ricerche sul gruppo Facebook degli appassionati di gastronomia storica o sul gruppo Telegram.

In questo periodo la documentazione è più ricca e generosa. La senape contenuta nella mostarda, si dice, viene usata per coprire alcuni difetti delle carni e delle preparazioni, non è difficile pensare che questa sia sempre stato uno dei suoi principali utilizzi. Ne esistono sostanzialmente tre tipi di diversa qualità, derivati anche dalla presenza sempre più abbondante dello zucchero che si sostituisce al mosto cotto e al miele: quelle a base di vino ridotto o mosto cotto sono le più economiche e che si possono eventualmente chiarificare con l’albume (ricordiamo la diatriba sui vini “vegan”), in fascia media quelle a base di miele (“mele”) e infine le migliori, a base di zucchero. Con il diffondersi dello zucchero di barbabietola in periodo napoleonico, anche queste diventeranno un prodotto popolare, slegato dalle gastrofighetterie di corte. Lo storico Marc Bloch, sappiamo oggi tutti, scrisse un seminale testo proprio sulla produzione delle marmellate (e si, la differenziazione delle confetture a base di agrumi è storia recente).

Due secoli fa la produzione di queste mostarde, a parte la base zuccherina, era comunque analoga. Ci sono affascinanti descrizioni di procedure di inizi ‘900 che descrivono frutti essiccati al sole anziché canditi. La mostarda veniva cotta ai bordi delle grandi stufe di ghisa dove dovevano sobbollire delicatamente ed essere spesso rimescolate e schiumate perché il succo non attaccasse sul fondo. Interessanti le tecniche di confezionamento dei nostri padri, che riempivano i vasi partendo dalla frutta che era rimasta in superficie e quindi meno cotta aggiungendo quella del fondo in cima, tecniche di saggezza contadina che ancora oggi si ripetono nelle grandi cucine.

L’Eperienza Cornucopia

Pochi sono i prodotti alimentari della tradizione che richiamano i sapori del medioevo come le mostarde, con il loro contrasto dolce-piccante da abbinarsi a piatti grassi e saporiti. Quella della mostarda di mele campanine è probabilmente la rappresentazione più emblematica di questa salsa (o conserva), che abbina una specifica varietà ad una lavorazione tradizionale.

A breve sarà disponibile per l’acquisto nella sezione e-commerce un piccolo quantitativo di mostarda biologica, che ho selezionato per la autenticità e la ricerca del prodotto dal campo al laboratorio. Prodotti con questa aderenza ai principi Cornucopia sono stati scelti per fare vivere in prima persona la storia del nostro patrimonio enogastronomico le stesse esperienze di gusto dei nostri padri.

Seguite il sito, la pagina o il canale per aggiornamenti su un prodotto Cornucopia che sto sviluppando proprio in questi giorni, un prodotto che unisce la storia della mostarda a quella della varietà Campanina.

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