Erano i primi anni del 1600 quando a Bologna il marchese Vincenzo Tanara scriveva lo splendido L’economia del cittadino in villa, del quale abbiamo accennato anche in altri articoli. Il Tanara, magistrato e marchese nell’allora stato pontificio ci lascia scritti ricchi di dettagli relativi l’amministrazione della una villa di una Bologna di altri tempi, a pochi decenni dalla celebre incoronazione di Carlo V a San Petronio. “Sul mio regno”, recita la celebre frase dell’Imperatore, “non tramonta mai il sole” (In meinem Reich geht die Sonne niemals unter). Ed è un bene che sia così perché una buona vigna richiede sole, vento, acqua e terra. Fu proprio in quegli anni che venne costruito anche il chiostro di un monastero benedettino che ci interessa, perché ospita una antichissima vite ancora, tutto sommato, in forze, nel centro stesso di Imola.
Tanara è famoso nell’ambito della storiografia agraria e gastronomica per tanti motivi ma di particolare interesse per noi oggi è la sua classificazione dei vitigni a quell’epoca, tra e quali spunta il nome di un’uva che ha retto per secoli nel territorio, la vite di quel chiostro. La Forcella.
Attorno alla Forcella orbita una confusione che si propaga persino su documenti ministeriali odierni, dove viene derubricata solo come una variante (o “clone”) dell’albana di Romagna, chiamata così per la biforcazione che presentano i suoi lunghi grappoli al loro termine. Oggi però non trattiamo l’Albana Forcella, ma quella Forcella che si coltivava da secoli anche nel paese in cui vivo, Castelfranco Emilia. O meglio, si coltivava addirittura nella via dove abito, anche se è stata ovviamente espiantata interamente. Fortunatamente una perona lungimirante ha recuperato delle talee per cui la Forcella della via dove abita Ser Parsifal è ancora in vita, e ci donerà ottimi vini.
Questo vitigno è sempre meno diffuso, sorte che in questa zona è toccata anche all’altro grande assente della biodiversità vinicola locale: l’Alionza. L’unico che gode ancora di una certa salute è l’altrettanto storico Montuni (con il quale si produce un onesto Bianco di Castelfranco Emilia).
Un importante testo del 1914 curato da Cavazza, cita la Forcella come impiegata per la produzione di vini da pasto, datto all’alberello, rustica ed espansiva, molto produttiva e quasi sempre usata in uvaggi. Un passaggio che porta a molte riflessioni sulla natura di un territorio ovunque sempre meno interessato alla sua vocazione vinifera storica. Attorno a casa del mio signore Ser Parsifal qui sopra, i terreni ospitano oggi coltivazioni a tappeto di Lambruschi e Pignoletto di qualità non solo spesso terrificante, ma ostinatamente condannati al monovitigno, quando mi chiedo se questa potrebbe essere ancora terra di grandi bianchi, nelle mani di enologi esperti.
Per far onore alla città di Imola e alla pianta di Forcella qui sopra, la ricetta Cornucopia di oggi riguarderà un dolce tipico della zona, tramandato a noi grazie ad una ricetta del celeberrimo Pellegrino Artusi.
Migliaccio di Romagna con saba di Uva Forcella
- Latte, decilitri N. 7.
- Sangue di maiale disfatto, grammi 330.
- Sapa di uva Forcella, grammi 200.
- Mandorle dolci sbucciate, grammi 100.
- Zucchero, grammi 100.
- Pangrattato finissimo, grammi 80.
- Candito, grammi 50.
- Burro, grammi 50.
- Spezie fini, due cucchiaini.
- Cioccolata, grammi 100.
- Noce moscata, un cucchiaino.
- Una striscia di scorza di limone.
Pestate in un mortaio le mandorle insieme col candito, che avrete prima tagliato a pezzetti, bagnatele di tanto in tanto con qualche cucchiaino di latte e passatele per istaccio. Ponete il latte al fuoco con la buccia di limone, che poi va levata, e fatelo bollire per 10 minuti ; unite quindi al medesimo la cioccolata grattata, e quando questa sarà sciolta, levatelo dal fuoco e lasciatelo freddare un poco. Poi versate nello stesso vaso il sangue, già passato per istaccio, e tutti gli altri ingredienti serbando per ultimo il pangrattato, del quale, se fosse troppo, si può lasciare addietro una parte. Mettete il composto a cuocere a bagnomaria e rimuovetelo spesso col mestolo onde non si attacchi al vaso. La cottura e il grado di giusta densità che fa d’uopo, si conoscono dal mestolo che, lasciato in mezzo al composto, deve rimanere ritto. Se ciò non avviene, aggiungete il resto del pangrattato, supposto non l’abbiate versato tutto. Pel rimanente regolatevi come alla torta di ricotta N. 488, cioè versatelo in una teglia foderata colla pasta matta N. 118 e, quando sarà ben diaccio, tagliatelo a mandorle. Cuocete poco la pasta matta per poterla tagliar facilmente e non lasciate risecchire il migliaccio al fuoco, ma levatelo quando si estrae pulito un fuscello di granata immersovi. Se vi servite del miele invece della sapa, assaggiate avanti di aggiunger lo zucchero onde non riesca troppo dolce, e notate che uno de’pregi di questo piatto è che sia mantecato, cioè di composizione ben fine. Il timore di non essere inteso da tutti, nella descrizione di queste pietanze, mi fa scendere spesso a troppo minuti particolari, che risparmierei volentieri.
Pellegrino Artusi, La scienza in cucina e l’arte di mangiar bene
- Scheda Uva Forcella
- Scheda Migliaccio di Romagna