Citata già nel 1700 nelle osterie modenesi, era ancora presente con il sistema della vite maritata a Modena in località san Cataldo, Ganaceto e Freto a fine Ottocento. Dava un mosto rosso tenue, dal buon tenore di glucosio e buona acidità1.
Posticcia. È buona, ma non dà molto colore al vino; è uva che ha le grana rotonde, il grappolo maggiore delle Berzemine, alle quali somiglierebbe, se non la differenziasse la grandezza di esso grappolo, ed anche il colore, che ha di un certo nero pallido. Io però la credo un’uva delle inferiori fralle uve forti2.
L’autor del Baccanale per certo non ha assaggiato nel fine dell’autunno la Posticcia carpigiana. Ella è gustosa: è vero che fa il vino rossetto ma è delicato; mescolata con altre di lei migliori riceve in se tutte quante le qualità e le ritiene con perfezione, ed il di lei vino non è facile a corrompersi. Se ciò avesse provato, non avrebbe detto ch’egli la crede un’ uva delle inferiori fralle uve forti3.
La società enologica reggiana, costituitasi nel 1873, fece alcune analisi sulla resa delle uve dell’ex-ducato estense, rilevando ancora la presenza della varietà Posticcia:
Constatò, per esempio, in generale che in 100 parti in peso d’uva si hanno in media 10 fra graspi, bucce e vinaccioli, e che coi mezzi ordinari di pigiamento si ottiene 71,50 di mosto, quale aumenta di 18,50 se il pigiamento è forzato e artificiale. Trovò che l’uva Lambrusca dà una quantità di mosto utilizzabile maggiore dell’accennata, che dopo per questa proprietà è l’uva “posticcia”, e la “covra” di qualità le più comuni, e che quella che in parità di circostanza svina meno è la “Lancellotta”. Della maggior parte dei mosti delle uve della provincia stabili, con accurate analisi comparative, quanto contengono di zucchero, d’acidulità e di materie estrattive e di altre parti costituenti i mosti stessi4.
Il Medici riprende poi la varietà Posticcia menzionandola come in grado di produrre vini fini se tagliata coi Lambruschi.
Che se fra i nostri vitigni ve ne sono di quelli che danno un mosto scadente, quale la Bigarletta, la Posticcia, la Pellegrina ecc., ve ne sono di quelli i quali danno un ottimo prodotto. Che molte uve nostrane le quali sono pressocchè abbandonate hanno mosti ricchi di tutti gli elementi richiesti per dare vini ottimi, e che perciò meritano di essere coltivate e sperimentati i prodotti. Quali p. es. una varietà di Amaraguscia, la Farinella, il Caicadello, ed altre, le quali tutte hanno un ottimo mosto. Che tutti i mosti, che ho potuto analizzare ricavati da uve francesi, qui importate, sono per qualità inferiori e spesso molto inferiori ai mosti delle nostre migliori uve. Essi difettano specialmente nel glucosio e sono più ricchi di materiali azotati. Che il glucosio in essi non ho mai trovato superiore al 18 per cento, mentre i nostri lambruschi hanno il 21 e 22 per cento. Che, qui nel comune, i mosti di stesse uve raccolte da viti coltivate nello stesso sito, a vigna e maritate ad albero, quelli delle uve prodotte dalle viti maritate ad albero sono migliori di quelli ottenuti dalle viti a vigna. Che in generale in pianura, i mosti ricavati dalle uve di viti maritate ad alberi sono più completi di quelli ottenuti dalle uve di viti coltivate a vigna5.
- Ramazzini, Enrico – Uve principali della pianura modenese, 1877 ↩︎
- Paltrinieri, Piergiovanni – note al Ditirambo di Vicini/Pincetti sui vini del carpigiano – 1752 ↩︎
- Maini, Luigi – L’Indicatore Modenese n. 14 “Catalogo alfabetico di quasi tutte le uve o viti conosciute e coltivate nelle provincie di Modena e Reggio secondo i loro nomi volgari con altre osservazioni relative” – 1851 ↩︎
- Medici, Filippo – Giornale di Agricoltura, Industria e Commercio – 1879 ↩︎
- Ramazzini, Enrico – Atti della Società dei naturalisti e matematici di Modena, 1866 ↩︎